AMICI
In questa sezione ospitiamo gli interventi di tutti quegli amici che vogliono condividere con noi le proprie esperienze di viaggio.
Il primo che presentiamo è Paolo Donà, noto giornalista sportivo del Gazzettino di Padova, che qui ci racconta del suo incredibile viaggio in Pakistan.
"La guida Ghulam Mohammad vive primavera, autunno e inverno a tremila metri, in un villaggio di 75 abitanti (19 sono suoi parenti) nel cuore del Karakorum, a sei ore di cammino dal più vicino centro abitato e a poche decine di chilometri in linea d’aria dal K2; non esiste luce elettrica, ovviamente. «Non mi piace fare figli», commenta; ed è per questo motivo che ne ha solo quattro, in coraggiosa controtendenza rispetto alla media nazionale che raggiunge quota nove, anche se l’età degli ultimi due (3 e mezzo, e 1 e mezzo rispetto ai primi due, 14 e 9) denota un inconscio ripensamento sull’argomento. E la sua età? «Dovrei avere tra 40 e 42 anni, mia madre mi ha aggiornato sull’età quando avevo circa cinque anni». Inutile dunque disquisire in Pakistan di segni zodiacali e soprattutto oroscopi, dal momento che vige regolarmente la massima incertezza sull’anno prima ancora che sul mese e giorno di nascita. La curiosità sull’ascendente Pesci o Gemelli - paradosso proprio nella terra delle ascensioni - viene eliminata in maniera automatica dalla mancanza fino a qualche anno fa di una anagrafe ufficiale in molti luoghi del Pakistan.
KARAKORUM HIGHWAY, L’OTTAVA MERAVIGLIA DEL MONDO
D’estate
Ghulam abita per motivi professionali a Islamabad, e proprio dalla moderna
capitale, avvolta nella nebbia di 42 umidi gradi, comincia il nostro viaggio:
Karakorum Highway fino al Rakhiot Bridge lungo le gole della regione Kohistan
attraversata e segnata dall’Indo, il Nanga Parbat, l’ottomila più grandioso
dell’Himalaia, i Territori del Nord, l’ingresso nella valle di Skardu nel
Baltistan, dentro la catena del Karakorum, l’antico reame di Khaplu e la valle
di Hushe, che si ferma davanti al Masherbrum, un altro ottomila; al ritorno, la
valle degli Hunzakut, il mitico popolo ultracentenario che basa la sua
alimentazione sulle albicocche. Duemila chilometri di sogno reale che sembrano
appartenere alla sfera degli esploratori e che invece possono essere consigliati
a chiunque voglia provare straordinarie emozioni e sensazioni senza remore o
preconcetti, luoghi comuni o superficialità. I posti di blocco nel grande nord,
che si sono susseguiti con sconcertante frequenza, sono stati by-passati dalle
fotocopie con tutti i nostri dati che la guida ha distribuito di corsa ai
gentili e sorridenti poliziotti; pareva volesse dire loro «leggi e sta buono»,
tanto forte era l’escamotage dell’esperienza. Il nostro buon Ghulam, prima di
raccontare di sè e della sua famiglia, si era presentato nel segno di un
marketing involontario ad alto livello: «Mi chiamo Ghulam, il mio nome in lingua
hurdu significa servitore: al suo servizio, signore».
Il
primo tratto Islamabad-Rakhiot Bridge (una quindicina di ore, frane permettendo)
ha una distanza dichiarata che varia tra i 450 e i 550 chilometri; i chilometri
rappresentano un optional, un parere, un’opinione; non ci è di supporto nemmeno
il contachilometri della jeep, che procede a velocità da sciopero a singhiozzo.
Gli "x" chilometri possono essere considerati un utile allenamento per
sopportare mentalmente prima ancora che fisicamente temperature fuori norma,
sbalzi e sobbalzi della jeep, strapiombi sistematici, forature, incidenti
meccanici e non solo, frane e affini, in un paesaggio che comincia con
spettacolari terrazzamenti di riso e si consolida nell’horror delle meraviglie
esibendo gole mozzafiato.
IL LEGGENDARIO "OTTOMILA" NANGA PARBAT A MISURA D’UOMO
Al
Rakhiot Bridge, punto di partenza per l’ascensione jeep più trekking al
leggendario Nanga Parbat, si consuma il solito rito prestabilito del passaggio
di un ponte; ovvero, quando l’adrenalina diventa protagonista esclusiva per un
minuto e venti secondi pari a 180 metri. I ponti sull’arrabbiatissimo fiume Indo
- ci viene detto - sono tutti ultrasicuri, ma allora ci chiediamo per quale
ragione siano stati costruiti non di rado a fianco di altri ponti dove sono ben
visibili i segni di vistosi cedimenti, che fanno immaginare facilmente auto
precipitate nel baratro. Non solo: saranno anche sicurissimi, ma viene richiesto
un transito alla velocità massima di cinque chilometri orari e di un veicolo
alla volta; il passaggio è accompagnato da sinistri cigolii emessi dalle
traballanti traversine in legno, degni del migliore film giallo, e ondulamenti
che evocano i terremoti, già tristemente di casa in Pakistan. E sotto, il più
originale fiume del mondo (delfini nel tragitto iniziale, coccodrilli nella
parte finale) si diverte a creare effetti danteschi di furibonda violenza che
tradotta in cifre significa una portata doppia del Nilo.
Ghulam ferma improvvisamente la jeep: da una microscopica fenditura della
roccia, scende quella che per i non addetti ai lavori sembra una innocente
fontanella. «Acqua bollente, miracolosa per i problemi di artrite», sentenzia la
guida. L’acqua è più che bollente, impossibile da avvicinare, ma un anziano
signore ne prova gli effetti. Il miracolo, secondo noi, è riuscire a
sopportarla. Quanto alla spiegazione scientifica, nessuna risposta, ma solo
fatti. Dalla meticolosa cura con la quale il viaggiatore si tocca soprattutto le
giunture degli arti, sulla fiducia dobbiamo convenire che quell’acqua bollente è
un portento.
UNA PISTA "HORROR" CHE SCAVA LA MONTAGNA
Al
ponte di Rakhiot, dove sorge un anacronistico "Shangrila" in un improbabile
stile cinese, dobbiamo obbligatoriamente lasciare per un paio di giorni la
nostra jeep, per trasferirci su un’altra jeep, guidata da un autista locale; la
"strada" per raggiungere il villaggio di Tato è infatti privata. E non potrebbe
essere diversamente: chi avrebbe mai il coraggio di guidare per quindici
chilometri in una pista scavata direttamente dentro la roccia, e a perfetto
strapiombo di cui non si riesce a vedere il fondo? «Scusi, ma per dove sale la
jeep?», chiediamo incuriositi, non ipotizzando soluzioni terrestri. «Per di là»,
risponde quasi distratta la guida. «Per di là dove?». «Sulla montagna». Già.
L’autista, vent’anni di patente, da tre anni pluri-pendolare quotidiano tra i
1100 metri di Rakhiot Bridge e i 2600 di Tato (villaggio praticamente senza
case), sembra disinteressarsi del terrificante percorso. Guida a memoria, come
un automa telecomandato, incurante di baratri, piccole frane e cigli
paurosamente cedevoli. Quando incrocia un collega in jeep, fa marcia indietro
impassibile, fino a trovare il centimetro di margine utile per passare in due.
Oppure si ferma a chiaccherare, incurante di trecento metri di vuoto. Non
possiamo certo definire divertente il percorso. Tra tanti pensieri che affollano
una mente poco tranquilla, ci viene il sospetto che magari il "nostro"
proverebbe enormi spaventi a guidare nella pianura padana; quesito irrisolto, la
voglia di colloquiare è azzerata. Da Tato a Fairy Meadows, finalmente due ore di
normale salita per escursionisti normali, ma precedute da mezz’ora di
toto-portatore (o Tato-portatore...). Al nostro arrivo, i portatori sbucano da
chissà dove; discussioni vivaci sul prescelto, finchè in regolare mancanza di
accordo, i nomi di ciascuno vengono posti dentro un berretto per la più classica
delle estrazioni a sorte. «Non potreste fare i portatori a turno?», mi sento di
suggerire. Non ottengo risposta.
LA GUIDA SI CONFESSA: «QUELLA VOLTA CHE MI APPARVE LA FATINA...»
Ai
3306 metri dei "Fairy Meadows" (i prati delle fate), davanti al colosso Nanga
Parbat, la prima vetta himalaiana a ovest, viene spontaneo chiedere il perchè di
un nome così suggestivo, anche al di là della straordinaria bellezza del luogo.
Ghulam mi guarda con la stessa solenne e severa espressione con la quale le
madri, tanti anni fa (ma tanti...), spiegavano ai figli - come se si trattasse
di uno scoop a conduzione familiare - che la cicogna e il fagottino con il bebè
incorporato non esistono.
«Lei mi deve credere - esclama improvvisamente Ghulam -, mi crede, vero, per
quello che le dirò?». Il tono è talmente deciso, che ricavo la vaga impressione
di poter essere abbandonato e scaricato "on the rocks" in caso di mia
espressione giudicata perplessa o peggio scettica. «Le credo, le credo, e perchè
mai non dovrei crederle?». E inizia l’incredibile racconto della guida: «Questi
luoghi sono avvolti da leggende e misteri di fate. Lo posso testimoniare. Avevo
sette-otto anni, quando mi appare una donna vestita da sposa, con un diadema in
testa, gli orecchini e uno scialle. Non ho provato paura, del resto i bambini
raramente conoscono questa sensazione. Ho sentito invece dentro di me una forza
interiore affascinante. Stavo dentro una stanza e me la vedevo davanti, uscivo,
e mi appariva fuori; la visione, una visione non evanescente - non saprei come
spiegarmi -, non mi abbandonava mai; si divertiva a sbucare improvvisamente,
seguendomi in tutti i miei spostamenti, credo per almeno un quarto d’ora. Ad un
certo punto, mi ha detto: "Adesso vai a casa, io mi reco da un’altra parte". Ed
è sparita. Allora ho subito raccontato emozionato l’episodio a mia mamma, che
molto tranquillamente mi ha detto: "Semplice, hai visto una fata". E anche gli
altri abitanti del villaggio mi hanno raccontato storie simili. Insomma, il mio
racconto non ha sorpreso nessuno...».
In tema di favole e leggende, approfittiamo per chiedere al nostro Ghulam anche
il suo pensiero sullo jeti; domanda forse oziosa, perchè chi ha visto una
fatina, non può non credere nell’abominevole uomo delle nevi. In realtà, il buon
Ghulam, con una interpretazione del tutto personale, ci complica la vita:
«Esiste, ed è un essere a due zampe, che cambia aspetto in continuazione,
prendendo le sembianze ora dell’orso, ora del leopardo, ora di altri animali
d’alta quota».
Il Nanga Parbat, legato alle gesta di Rheinold Messner ma soprattutto di Hermann
Buhl, che per primo lo scalò nel 1953, superando in giornata gli ultimi 1700
metri di parete, significa "montagna assassina": non occorre spiegazione. Il
paesaggio dei Fairy Meadows riempiti di tende private e importate fa esclamare
con poca fantasia "sembra una cartolina". La montagna in realtà è molto più
spettacolare delle cartoline; le quali cartoline comunque racchiudono un piccolo
segreto: 8125 metri di altezza secondo alcune, 8126 secondo altre. La differenza
risiede nella data di pubblicazione che risente di quella delle rilevazioni
altimetriche. Infatti, la terribile montagna cresce di sette millimetri
all’anno, per effetto dello scontro perenne tra la collisione dell’India e
dell’Asia. Un metro ogni 150 anni.
Nell’accogliente
rifugio del Raikot Sarai resort (gestito con sapiente management dallo staff di
Rehmat Nabi, escursionista di fama nonchè uomo politico), illuminato di sera
solo dalle lampade a kerosene, una signora legge in tedesco un capitolo del
libro di Buhl sulla conquista del suo "ottomila". In devotissimo silenzio, 14
austriaci e tedeschi ascoltano. Lei è la lombarda Irene Affentrager, la
traduttrice del libro (esauritissimo) "E’ buio sul ghiacciaio", scritto negli
Anni Cinquanta dal grande scalatore, ed è in vacanza assieme all’amica Carla
Maderna, anche lei socia del "gruppo scrittori di montagna". Irene Affentranger
declama senza enfatizzare, creando un’attenzione da ascolto di rara intensità.
Bella forza, si potrebbe pensare, non vale leggere con la montagna davanti... E
invece i capitoli del libro, sotto i ghiacciai del sontuoso "ottomila",
acquistano ulteriore lucentezza propria. Silenzio totale, immobilità assoluta,
solo qualche cinguettio isolato.
Guardiamo
e riguardiamo il Nanga Parbat, che da solo vale l’intero viaggio. Potrebbe avere
la forma, alla lontana, del monte Bianco, ma i 4807 metri lievitano a 8125 o
8126; i "Fairy Meadows" potrebbero essere l’Alpe di Siusi, ma i 1800-2000 metri
sono 3300. d’estate, non nevica mai sotto i 3600 metri, a 3300 metri di sera la
temperatura viaggia su valori da pianura padana, 25 gradi. Tutto sembra tutto,
ma niente è; questa reale irrealtà abbaglia, affascina, lascia esterrefatti,
sconvolge; non pare una montagna, ma una montagna sopra una montagna come quando
da piccoli si giocava con i legnetti, tentando di costruire improbabili
grattacieli che crollavano al minimo spostamento d’aria. Nella seconda notte in
tenda, si scatena un temporale, dalle caratteristiche di rovescio... cittadino.
Improvvisamente immaginiamo l’interruzione per frane della terribile pista, gli
elicotteri che vengono a salvare i turisti... Fantasia non fuori posto, perchè
nel non lontano 1987, per un cedimento chilometrico della Kkh, vessata
dall’Indo, i turisti sono stati salvati proprio a bordo di elicotteri partiti da
Gilgit.
HUNZAKUT, IL POPOLO CHE VIVE CENT’ANNI CON LE ALBICOCCHE
Dal
Nanga Parbat agli Hunzakut, il popolo come detto che si nutre di albicocche,
avvolto nella leggenda per la sua straordinaria longevità, è solo questione di
ore. «Vivo bene, mi sento benissimo». La nostra interlocutrice del delizioso
paesino di Baltit, che porta "circa" 105 lucidissimi anni, ci scruta con
inquietante decisione, quasi a voler scoprire invece la nostra età, sicuramente
certa. L’effetto-albicocca, al di là di inevitabili miti e forzature, si
abbinerà - ahinoi - tra qualche anno all’effetto-Karakorum Highway, definita
l’ottava meraviglia del mondo, la strada che ripropone "la via della seta" di
Marco Polo, che ha aperto al mondo il popolo Hunzakut e che ha chiuso un reame.
Il frutto, da reale creatore di salute è destinato infatti a diventare un
miracoloso fenomeno commerciale, e già si notano le prime timide avvisaglie
nelle confezioni di marmellata predisposte in lingua inglese. L’incredibile
nostra guida Ghulam con la massima naturalezza, si diverte intanto a parlare la
lingua burushaski, esclusiva della vallata; nessun linguista nel mondo intero è
finora riuscito a decodificare la provenienza di questo idioma, misterioso come
il basco. «Parlo anche hurdu, indi, shiva, punjabi, balti, chitrali...», precisa
in inglese la guida con un tocco di comprensibile civetteria glottologica.
La
centocinquenne continua a devastarci con lo sguardo: «Cosa faccio tutto il
giorno? Lavori domestici, come ad esempio lavare». Parla spedita e gesticola in
maniera teatrale, come se si esprimesse davanti alla televisione in diretta,
mostrando tempi minimi di reazione tra domanda e risposta; i segni dell’età sono
ovviamente scolpiti nel volto, ma il piglio (cipiglio) appartiene a generazioni
under 100, e di molto. «Ah, scusi - corregge quasi in preda a sensi di colpa per
troppa esuberanza nel racconto della sua salute - talvolta accuso qualche
problemino alla vista...».
Per le statistiche, l’età media in Pakistan è di 59 anni, 77 in Italia; secondo
un nostro conto un po’ empirico e forse non attendibile, la virtuale proiezione
dell’età della nonnina nel nostro paese sarebbe di 136 anni. Auguri.
Le albicocche sono per gli Hunzakut il pane, la carne, il formaggio, il pesce,
il dessert, la pizza, le uova, la verdura, la pasta e il riso; l’espressione "te
le tirano dietro" deve essere nata da queste parti, perchè i bambini dispettosi
tirano sassate di albicocche ai pochi turisti; se ne trovano con maggiore
facilità dei sassi e lasciano ugualmente segni, e comunque sempre meglio dei
sassi lanciati in autostrada dai cavalcavia. Fortunatamente, non abbiamo visto
fionde. I tetti delle case sono ricoperti di albicocche, stese ad essiccare per
l’inverno, le gerle portano albicocche, le stradine sono ripiene di albicocche
calpestate; le albicocche servono addirittura per allenarsi a cricket. Piccole,
bianche, gustose. Naturali sostituti delle ciliegie, della serie "una tira
l’altra".
La
vallata apre prospettive di bellezza stratosferica. Davanti al nostro lindo
alberghetto, aggrappato alla montagna come l’intero paese di Karimabad,
troneggiano il suggestivo e imprendibile forte Baltit, e a seguire i 7388 metri
del vicino monte Ultar. «Le altre cime tra i seimila e i settemila metri non
hanno nemmeno un nome - spiega la guida, perchè troppo basse, non interessano
nessuno...». I libri di turismo sul Pakistan, anche recentissimi, sostengono che
il monte Ultar non è mai stato scalato. Un abitante locale si affretta invece a
precisare che un giorno un giapponese è riuscito nell’impresa solitaria.
Solitaria come la conoscenza dell’impresa...
Contrariamente alle altre zone del Pakistan, per le stradine si vedono anche
donne - e senza velo sul capo -, ma è come se da 8-10 anni di età passassero da
un giorno all’altro a 80-90 e oltre; tra le due fasce d’età, nessuna presenza.
Angoli idilliaci, quadri iconici di vita quotidiana fuori del tempo; o forse il
tempo qui non è mai passato.
60 GRADI AL SOLE, MANCANDO L’OMBRA
Riprendiamo
la nostra Kkh, sigla orgogliosamente familiare per i pakistani e i cinesi, che
hanno costruito la Karakorum Highway tra il 1962 e il 1978, pagando un prezzo di
500 morti. Una strada asfaltata, percorsa da camion tintinnanti di monili,
bardati di colorato barocco pakistano in ogni centimetro quadrato, bonaria solo
in pochi tratti, che riserva frane anche al ritmo di una ogni cinquanta metri,
alluvioni, smottamenti, inondazioni, terremoti (a Besham uno ogni trenta
secondi), in un contesto di infernali baratri e temperature assurde, anche 60
gradi al sole in mancanza d’ombra. Strada vietata a chi soffre di vertigini,
adatta soprattutto per viaggiatori fortunati, che dribblano le frane o leggono
sui giornali una settimana dopo, una volta ritornati a casa, di alluvioni e
inondazioni provocati da un Indo limaccioso, minaccioso, dove sarebbe
impossibile anche il rafting estremo di pazzi scatenati. Ancora più dantesca è
la deviazione verso Skardu e Hushe, a contatto con gli ottomila dell’Himalaia;
vampate impossibili di caldo (due per cento di umidità: pericolo di
disidratazione) dalle gole senza vegetazione che attirano la calura e la
rimandano al viaggiatore avvolgendolo e aggredendolo, tortuoso percorso sempre
ricavato e ricamato a tutta roccia seguendo i capricci dell’Indo e del suo
affluente Shyok.
Un
caldo inverosimile, che merita una parentesi sociale ed etnica. Un recente
congresso mondiale ha dimostrato che ogni uomo, in qualunque parte del mondo
abiti, avverte identiche sensazioni di caldo; il popolo pakistano che un
inveterato luogo comune vuole "abituato", in realtà prova la stessa sofferenza
di un milanese; cambia naturalmente la modalità di approccio e quindi di difesa,
che si manifesta nei vestiti, nell’alimentazione, nello stile e nelle cadenze di
vita. E in effetti, la guida continua a sudare imprecando al caldo, tutti gli
edifici pubblici, soprattutto nella capitale Islamabad (dove si aggiunge anche
uno spaventoso tasso di umidità), dispongono di impianti di aria condizionata da
far venire brividi di freddo.
Ci poniamo anche un altro quesito di scienza spicciola, che rimane però senza
risposta: perchè salendo rapidamente di quota, nessuno avverte fischi o ronzii
alle orecchie, al contrario di quanto succede ad esempio sulle Dolomiti a parità
di dislivello e altezza?
Non può mancare il racconto a sorpresa, in esclusiva, della nostra guida anche
sulla Kkh, un "feuilleton" inedito sempre in tema: «Durante la costruzione della
strada, un capitano pakistano si è innamorato di una ragazza che abitava in
mezzo ai monti, a qualche chilometro dalla Karakorum Highway. Ti sposo, gli ha
detto la ragazza, a patto che tu sia gradito ai miei genitori e parenti, e che
tu faccia asfaltare la strada che porta alla mia abitazione». L’amore è cieco,
anche nell’asfaltatura delle strade. E così, prima del tratto a lui assegnato
della Kkh, è stata asfaltata la stradina che portava all’abitazione di quella
che è poi diventata la sua sposa. Non prima però di essersi preso una adeguata
lavata di capo dal suo superiore in grado. «Scusi, ma l’amore non mi ha fatto
capire più nulla», è stata la debole giustificazione del capitano.
L’AMARCORD DEL RAJA’: «BEI TEMPI, AVEVAMO QUARANTA CAVALLI»
Nella
panoramica balconata di Khaplu, dopo Skardu - centro base per le ascensioni
degli ottomila - e dopo le oasi e gli immancabili strapiombi sull’Indo, dormiamo
all’hotel K7 (otto italiani in otto anni di apertura), quattro accoglienti
camere, di proprietà del raja della valle discendente diretto del re di Khaplu,
che da 2900 metri di altezza contemplano la frastagliata catena del Karakorum.
Una micro-lucertolina si diverte a correre nella nostra camera. Che fare?
L’inserviente tranquillizza: «Non si preoccupi, sono animali locali». Il
gentilissimo Alambar Alì vive proprio accanto al suo ex palazzo reale, in
pauroso e penoso stato di abbandono da una trentina d’anni, una costruzione da
fantasmi in stridente contrasto con non antichi fasti. Alambar Alì ci porta
personalmente a conoscere la famiglia, a mostrare foto d’epoca con il re, ci
presenta lo zio - il figlio del re, perfetto nel suo inglese - («deve avere tra
gli 85 e gli 88 anni»), i cugini, moglie e figli, ci trascrive il suo non facile
albero genealogico, ci invita ad una partita di polo a cavallo, in un campo
sconnesso dove da pochi minuti è terminata un incontro di calcio (tutti i
giocatori in pantaloni lunghi, e sempre silenziosi) su un campo di 200 metri per
30. Il polo a cavallo, l’equivalente del calcio per gli italiani, nato in Asia e
riscoperto dagli inglesi, rappresenta per i pakistani del nord un rito
incontaminato vissuto con furibonda passione e partecipazione.
Duecento spettatori si raccolgono alle falde del Karakorum, incuriositi dalla
presenza di tre rajà sempre stimati e riveriti. Durante una fase concitata di
gioco, un rajà si ferma per farsi fotografare esibendo il più classico sorriso
firmato "cheese", mentre l’avversario gli passa davanti; difficile pensare ad un
Maldini che per farsi immortalare durante il derby con l’Inter, si lasci
sfuggire Vieri... La linea di fondo del "campo sportivo" è costituita
direttamente da un muretto, che fa rimbalzare sul terreno il pallone (tutto
regolare...). Nessuno ha il coraggio di protestare contro l’arbitro, anche se
certe decisioni, in altri contesti, avrebbero sollevato un pensierino
all’invasione di campo.
L’unico segno visibile di regalità, fuori dal palazzo, è rappresentato dai
vezzosi lampadari di cristallo che adornano una spartana sala-ristorante.
Amarcord e nostalgia si intrecciano, parlano più i silenzi dei racconti d’antan.
«Sono vissuto a palazzo reale fino all’età di 12 anni - racconta il rajà,
offrendoci una tazza di tè e sale (vietato stupirsi) - con la mia famiglia.
Avevamo quaranta servitori, oltre ad una quarantina di cavalli per le partite di
polo che si disputavano un paio di volte alla settimana. E organizzavamo anche
feste e concerti. Nostalgie? Guardiamo avanti».
FINALE A SORPRESA: UNA GALEOTTA USCITA DI STRADA
Guardiamo avanti anche noi, ormai sulla strada di Islamabad. Ma prima di
ripartire, l’incredibile Ghulam, che conosce proprio tutto e tutti, ci presenta
Nisar Abbas, titolare dell’hotel Sadpara International a Skardu (ufficio a
sinistra rispetto all’entrata dell’albergo) e giornalista professionista nonchè
segretario generale dell’associazione stampa della regione Baltistan (ufficio a
destra). Lodevoli gli sforzi del collega per mostrarmi i criteri di
impaginazione delle notizie in lingua hurdu con caratteri arabi. In precedenza,
ci aveva consigliato sull’acquisto di un tappeto (mezzo pomeriggio per trattare
il prezzo, come da copione, bere tè verde e pepsi), ma aveva anche urlato contro
un venditore di borsoni perchè non scendeva con lo sconto. Urla naturalmente
incomprensibili nel dettaglio, ma chiare nel tono; come quando il mitico arbitro
di calcio Lo Bello di Siracusa ha espulso un russo solo perchè ha visto la
decisione dei movimenti della bocca mentre il giocatore protestava...
Tempo di ritorno, tempo di bilanci. Sembra non più collocabile nel tempo il
nostro primo giorno a Islamabad, visitando la mastodontica moschea regalata
dall’Aga Khan, dove a piedi scalzi si cammina su superfici arroventate dal sole.
Fedeli fedelissimi, per i quali lungo la Karakorum Highway sono stati
addirittura predisposti "luoghi di preghiera" ai distributori di benzina.
Due settimane, mille emozioni, luoghi da consegnare alla memoria, al ricordo e
alla nostalgia; miti visti e vissuti, trasferiti in quella che sembrava una
impossibile realtà. Tanti momenti che da soli valgono il viaggio, come la
visione del "quasi ottomila" Rakaposhi, scintillante di ghiacciai, ma anche
innocenti amarcord di frivolezze gastronomiche come le indimenticabili
lenticchie speziate. Sorprese inimmaginabili, quali ad esempio l’eleganza e la
gentilezza degli innumerevoli poliziotti, che ci danno cordialmente la mano
chiedendo "come va?" con un sorriso da colleghi turisti più che da forze
dell’ordine di stanza in zone storicamente poco tranquille. Il "come va?" è
comunque patrimonio nazionale collettivo, figlio di una ospitalità immensa e
spontanea, al di sopra di ogni sospetto. Tra tanti ricordi-flash, un
commerciante che chiude il suo negozio per accompagnarci ad un monumento
distante un paio di chilometri.
E un finale imprevisto, forse figlio del totale appagamento che ha coinvolto
anche il pur bravissimo e collaudato autista. Ad un centinaio di chilometri da
Islamabad, ad una curva visibile in tutto il suo sviluppo, apparentemente
innocua, la jeep arriva un po’ lunga; la sterzata crea un testa coda, con
relativo ribaltamento su un fianco; voliamo fuori tutti e tre su un
provvidenziale prato, per almeno tre metri. La guida fatica a trattenere le
lacrime, temendo per me chissà quali conseguenze fisiche e psicologiche. «Lei
per me è diventato un fratello - dice -, mia mamma è morta, e per me la sua è
ora la mia». Soltanto un vistoso ematoma rimane l’effimero ricordo del pauroso
volo; "the day after" si può anche sorridere, pensando a strapiombi & baratri.
«Sono io responsabile di quanto le succede», mi aveva detto all’inizio del
viaggio; e che senso di responsabilità: quando bevo da una bottiglia d’acqua sul
tavolo di una trattoria, la lavata di capo è potente: «Non è filtrata, ci
mettono la bocca anche i cavalli e altri animali». Convinto.
Il flash più importante dell’intero viaggio, tuttavia, non dipende dal
paesaggio, dalla natura o dalle disavventure: nella valle di Hshe, di
sconvolgente selvaggia bellezza, dove la jeep procede a passo d’uomo in una
corsa nel nulla verso il nulla, una donna e suo figlio, seduti nella solitudine
di una pietra targata Karakorum, ci offrono un pezzo di pane - il loro pasto -
spezzato con ieratico gesto. Impagabile."
Paolo Donà